Quando si globalizza lo stereotipo

Si potevano usare mille parole a Milano nella giornata del 20 Maggio 2017.
Si usare “solidarietà”, “speranza”, “integrazione”, “rifiuto della diversità”, “apolide”; tutte belle parole che però io avrei arricchito con “arroganza”, “stereotipo”, “incoerenza”, “ignoranza” e tantissime altre che farebbero arricciare il naso del politicamente corretto ma non dell’uomo di strada.
Una data molto in linea a quello che è accaduto nei secoli precedenti proprio in  quel giorno, perché il 20 Maggio 1570 Abraham Ortelius pubblicò il primo atlante: ed il mondo poté conoscersi un po’ meglio.
Il 20 Maggio 1920 nel Quebec la stazione XWA cominciò a trasmettere una programmazione radiofonica regolare: ed il mondo poté cominciare a conoscere un po’ meglio.
Il 20 Maggio 1927 Lindbergh decollò da Long Island (New York) per la prima traversata in solitaria fino a Parigi: ed il mondo cominciò ad essere più piccolo.
Il 20 Maggio 1947 i primi prigionieri cominciarono ad arrivare adAuschwitz: ed il mondo cominciò ad essere più cattivo.
Ed il 20 Maggio 2017 a Milano parte una marcia da piazza Venezia che arriva a Castello Sforzesco per dire che non si vogliono i muri culturali: ed il mondo è (sembra) un po’ più solidale.
Milano è nata dall’incontro tra storie diverse e il suo sviluppo si è fondato, nei suoi momenti migliori, proprio sulla capacità di accogliere le diversità e di alimentare la coesione sociale.  E come Milano, in svariati luoghi del mondo, chi crede nella società aperta, e non si fa incantare dalle sirene dell’odio, scommette con più certezza sulla propria crescita e sulla capacità di generare  lavoro, benessere ed opportunità.
E’ riportato sul sito della manifestazione e, messa così, non posso dire che sia sbagliato.
Una mobilitazione carica di speranza. La speranza di chi crede nel valore del rispetto delle differenze culturali ed etniche. La speranza di chi ritiene che la società plurale sia un’occasione di crescita per tutti e che la logica dei muri che fomentano la paura  debba essere sconfitta dalle scelte che pongono al centro la forza dell’integrazione e della convivenza. Quelle scelte che, a cominciare dall’Europa, sconfiggano il vento dell’intolleranza e che mettano al centro il principio dell’incontro tra i popoli e di un futuro fondato sul valore della persona senza che la nazione d’origine, la fede professata, il colore della pelle possano diventare il pretesto per alimentare nuove discriminazioni.
Anche questa frase non è sbagliata e posta sotto questo aspetto, la marcia sembra essere armata di tutte le più buone intenzioni. Ma una volta arrivati dentro la marcia, le cose cambiano, dal mio punto di vista.


Sono contrario ad ogni tipo di razzismo perché credo che esista solo una grande razza umana, magari sbagliata, magari giusta, ma quella è e resta.
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Però capisco che in Italia ancora non è possibile fare integrazione perché quando si prova, viene fatta nel modo più sbagliato e nella forma peggiore. Ma siccome spesso abbiamo i paraocchi, questa complesso ragionamento ci lascia indifferenti.
Ed io che ogni tanto provo a ragionare, sono poi additato come il solito fascista (perché la storia non si conosce) pieno di pregiudizi (sic) ed ignorante (pure?!?!?!?!?). Qualcuno mi ha levato il saluto, qualcuno mi evita perché dice che tra noi “c’é tensione”, qualcun altro parla alle spalle (quello succede sempre).
Ma la realtà è che i paraocchi di queste persone sono ancora più grandi.
Io amo la globalizzazione culturale, ma come la descrive magistralmente Danilo Zolo nel suo libro, è un tipo di evento che dobbiamo essere pronti ad accettare, ampliando i nostri confini culturali fino a fare nostri i due rovesci della medaglia.
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Non è solo accogliere un extracomunitario (non sto usando questo termine in maniera dispregiativa), dobbiamo anche capire che ha una cultura differente, un modo di vedere e di ragionare differente da quello che pensiamo e come tale dobbiamo accettarlo. Quindi dobbiamo accettare che un islamico picchi la moglie, che un africano faccia infibulare la figlia, che un cinese lavori fino allo stremo delle forze per una scodella di riso, e dobbiamo accettarlo senza opporci.
Emma Bonino, dal palco stando superprotetta ma uno scoordinato cordone anti-folla (ma non erano contro i muri?) ha sentenziato come una maestra davanti ad una classe di bambini deficienti, che se mangiamo i pomodori italiani è grazie a queste persone che vanno a lavorare nei campi; e poi la procura di Cosenza arresta i caporali perché li sfruttano. Forse la Bonino sarebbe dovuta andare per la strada come ho avuto la possibilità di fare io con i ragazzi del Progetto BUS e vedere il rovescio della medaglia.
Vogliamo abbattere i muri: facciamolo seriamente e non con una marcia politica. Sarei stato curioso di vedere quanto Milano è stata coinvolta ieri e quale sarebbe stata la partecipazione se non ci fosse stata la politica di mezzo, con il sindaco Sala e la compagnia bella.
E sarei stato curioso di vedere se quel bel parco riempito di ragazzi ribelli, sarebbe stato altrettanto pieno oggi oppure durante una giornata di sole. Perché mentre c’erano gli interventi, mentre qualcuno parlava per insegnare o far ragionare, intorno a noi della stampa non c’erano i ragazzi interessati come quelli che vidi in Grecia durante i comizi di Tsipras del 2015.
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C’erano i sindacati, c’erano i politici, c’erano gli amici degli amici, tutti tranne chi realmente potrebbe evitare che i muri della tolleranza vengano tirati su. Si è puntato il dito contro Salvini e la Lega Nord, si è puntato il dito contro il governatore Maroni che chiedeva di non far svolgere questo corteo dopo l’accoltellamento da parte di Ismail Hosnia due agenti della polizia. Si è puntato il dito contro chi dice che magari qualcuno, con gli sbarchi di tutti questi migranti, ha interessi economici, come se la cosa fosse impossibile.
Si sono dette tantissime belle parole, ma non si è detta quella che forse io, tanti altri, mi avrei voluto sentir dire.
Avrei voluto sentire dire che è il caso di regolamentare l’accoglienza perché non siamo in grado di farla, non siamo in grado di sistemare dignitosamente queste persone da qualche parte e non siamo in grado di evitare lo scontento di chi si alza la mattina per andare in fabbrica e non arriva a fine mese.
Non siamo in grado di bloccare, perché le istituzioni non lo vogliono, la piaga del caporalato e dello sfruttamento sessuale di queste persone che vengono in Italia nella speranza di una vita migliore per loro e la loro famiglia.
Io voglio costruire i muri, perché vorrei che queste persone fossero protette, in casa loro dai loro problemi, ma fossero protetti.
La marcia del 20 Maggio 2017 è già dimenticata: ancora qualche articolo sul giornale, ancora qualche post su FB e poi la giostra continua implacabile, mentre questi poveracci continueranno ad essere le pedine del panem et cincenses che è la politica italiana.

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