Parlarsi con il cuore

Il rituale dei khorovats, gli spiedini di carne, in Armenia è quasi sacro. Comincia il giorno prima, quando si compra la carne nella giusta quantità e dalla soffitta vengono tirati fuori gli spiedi di ferro lavorato. Il capo famiglia li pulisce con il fuoco e l’alcool ed è solo lui che taglia la carne che mette a marinare con aceto ed erbe.


Non è un rituale di tutti i giorni perchè in quelle che sono state le repubbliche russe, oramai è un lusso che non sempre possono permettersi. Ecco perchè i khorovatse vengono preparati solo in determinate occasioni ma anche per eventi ritenuti eccezionali.
Ed a Spitak, quel giorno, l’evento è eccezionale: una troupe televisiva italia è lì per ricordare che il 7 dicembre 1988 una forza pari a 10 bombe di Hiroshima si é sviluppata sotto quella terra al nord dell’Armenia: 30 secondi di terrore con scosse fino a 10 gradi della scala Richter: 25.000 persone morte e 140.000 restate ferite o invalide.


Ancora oggi, nella valle, si vedono le spaccature del terreno, le ferite di quello che è stato un evento devastante e che resta nella mente delle vecchie generazioni ma anche nelle paure delle nuove. Così come si vedono i container dove le persone vivono da allora e che hanno oramai reso meno freddi con piccoli abbellimenti e personalizzazioni.
Ruben, così lo chiamo perchè non riesco a pronunciare il suo nome, aveva molti sogni prima di quel terremoto. Si era sposato, aveva già un figlio ed aveva un lavoro nella fabbrica di ferro vicino a Spitak.



Era felice come lo erano tante persone che sapevano accontentarsi di come il regime comunista aveva pianificato la loro vita
Non aveva pretese se non quella di vivere sereno.
Non aveva pretese se non quella di dare alla sua famiglia tutto quello che serviva.
Non aveva pretese se non quella di vedere i suoi figli crescere bene e felici.
Questo fino al 6 Dicembre 1988.
Due giorni dopo, la sua unica pretesa era quella di sopravvivere.
Il ricordo del terremoto è brutto e vivo nella sua mente e si affaccia nei suoi incubi quasi ogni notte. Quando sente un piccolo rumore fuori dalla finestra della camera, o un gridolino di un bambino che gioca per strada o quando magari la moglie si muove nel sonno ed il letto trema leggermente.
Ruben si risvegliò su una barella quella mattina; era stato fortunato perchè non era restato intrappolato sotto le macerie come molti altri. La televisione armena documentava i volontari che alla luce delle lance termiche, normalmente utilizzate per lavori metalmeccanici ma che in quelle occasioni servivano ad illuminare, armati di mazze pesanti, tentavano di abbattere i muri di cemento armato crollati sopra le persone.
Ruben aveva le braccia rotte ma non aveva dolore. Il suo fisico reagiva contro la sua mente congelando il dolore che comunque avrebbe somministrato lentamente nei giorni futuri. I medici lo ignoravano perchè comunque era vivo e poteva essere curato in un secondo momento mentre loro nell’immediato dovevano salvare chi stava morendo.
La moglie non sapeva nulla di lui ma già aveva cucito il bottone del lutto perchè era sicura di essere diventata vedova. Non piangeva per fare coraggio al figlio ma ogni tanto sprofondava di nascosto la faccia nell’incavo delle braccia e si lasciava andare nascosta dalla solidarietà di un compagno di sventura.
Gli aerei cargo atterravano all’aeroporto distante poche decine di kilometri portando medici e medicine, generi alimentari e, purtroppo, feretri per i corpi che diversamente sarebbero stati ammassati in fosse comuni, aggiungendo al dramma anche il rischio di epidemie.
Ruben restò in ospedale diversi giorni, delle settimane intere, impossibilitato a mettersi in contatto con la famiglia perchè non sapeva dove ritrovarla ed anche perchè la polizia aveva altre cose da sbrigare e nella disorganizzazione non aveva compilato e quindi divulgato liste di sopravvissuti.
Dopo un mese il primo di diversi miracoli: la moglie si materializzò davanti al suo letto. Voleva fare del volontariato, aiutando le persone che soffrivano e qualcuno dal cielo aveva deciso di premiare il suo altruismo strappandole via la fascia del lutto.
La gioia era tanta e durò qualche giorno, prima che la disperazione della realtà si affacciasse nuovamente. La fabbrica venne chiusa e le mille speranze ed i mille sogni furono chiusi per sempre a chiave dentro un cassetto.
La felicità diventata dolore si trasformò in povertà. Uno sterile container era diventato la casa dove condividere la vita ed il poco cibo messo faticosamente a tavola ogni giorni. Ma anche qualche piccola gioia come il colore dei fiocchi azzurri e rosa degli altri figli venuti alla luce.
E poi una mattina la voglia e tanta forza di ricominciare da capo.
Le braccia di Ruben ripresero a funzionare meglio, senza limitazioni e dolori, forse meglio di prima. Si appropriò nell’accondiscendenza di tutti di un pezzo di terra che coltivò per dare da mangiare alla famiglia e guadagnare qualche soldo con i quali acquistò una mucca e delle galline. E la sveglia che da quel giorno, per ogni giorno, suona alle 5 anche quando la temperatura scende sotto lo zero.
E finalmente un sorriso interrotto dal pianto liberatorio di tutti quando lasciano il container per trasferirsi nella casa che lui, insieme ai figli ed ai vicini, aveva ricostruito. Piccola, senza troppe pretese, ma della famiglia Khachatryan, di Ruben, della moglie e dei figli.
Ruben mi racconta la sua storia mentre infilza la carne negli spiedini. Non mi guarda negli occhi perchè fa finta di essere troppo impegnato ma la luce della lampadina non nasconde che i suoi sono lucidi di commozione. Mi traduce le sue parole Elia, la figlia che faticosamente hanno fatto studiare all’università di Yerevan. Nessuno lo sa ma tra qualche anno, dopo quella sera, andrà a lavorare per una ditta di Londra che le pagherà un discreto stipendio e le permetterà di farsi una famiglia e di far vivere meglio la sua. Dopo averci fatto da traduttrice esce di casa a comprare le verdure per la cena ed il vino di Garni che dopo 40 giorni che vivo in Armenia ho imparato ad amare.
Ancora quel giorno a Spitak molte strade non sono asfaltate ed anche quelle dove si affaccia la loro casa non lo è. La polvere si alza alta ma il muro di cinta evita che entri in casa: in quel muro Ruber con un chiodo ha segnato ogni mese quanto i figli crescevano e per lui è importante perchè rappresenta la vita che va avanti sempre e comunque.
Ci sediamo davanti alla brace e ci guardiamo. Lui parla solo armeno ed io italiano ed inglese. Questo potrebbe impedirci di comunicare ma il condizionale è d’obbligo. Ci viene da ridere e lui prende due pezzi di carne che avvolge nel pane lavash. Lo mangiamo in totale confidenza, parlando e gesticolando perchè le parole quella sera non servono. Sono i nostri cuori che si parlano, si ascoltano e si capiscono. La sua storia è un libro che insegna a non arrendersi mai e a lottare per la famiglia. Il fuoco della brace sale al cielo come le nostre parole e le nostre risate. Ruben, quella sera, è un altro terremoto: ma questa volta di vita.

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