Un drogato di parole
Non ho mai fumato in vita mia, neanche quando ero alle superiori per sentirmi adulto durante le cene di classe o le gite varie, dove invece si abusa di questa pratica in maniera incosciente e stupida.
Ho abusato del vino solo una volta, in quinto superiore, perché “festeggiavamo” la mia prima insufficienza in tecnica bancaria e commerciale dopo un ciclo di studi sempre eccellente in quelle materie; i miei compagni si sentirono in dovere di farmi bere come se non ci fosse un domani (ipotesi probabile se mio padre avesse scoperto questo brutto voto).
Mi piace bere un cicchetto la sera dopo un buon pasto, oppure un bicchiere di vino rosato diluito con molta acqua a pranzo o cena e la birra fredda d’estate insieme a una buona pizza.
Purtroppo però due brutti vizi: amo leggere e scrivere.
Il primo vizio l’ho scoperto per caso in seconda media, quando la professoressa Quattrini (che ho da sempre e per sempre odiato) ci obbligò a leggere un libro durante le vacanze di Natale. A me capitò il romanzo di Piet Bakker intitolato Ciske muso di topo.
Ammetto che inizialmente, la lettura risultò difficile, complicata: per usare un termine finanziario direi che “non decollava” assolutamente. Ogni pagina che leggevo era una sofferenza che mi obbligava (ma lo facevo con piacere) a maledire la professoressa che mi aveva dato questo mattone di carta.
Fu poi a Villa San Giovanni, dopo essere uscito dal traghetto da Messina, che accadde qualche cosa di non aspettavo: il piccolo Ciske si materializzò nella mia mente e con lui tutto il suo mondo. Ogni riga che leggevo, costruiva un nuovo orizzonte nella mia mente fino a che scoprii di camminare accanto al personaggio.
Arrivai alla fine del libro come se stessi salutando un amico per cominciare un viaggio nuovo verso un mondo per me, fino ad allora, sconosciuto. L’immaginazione, quel bellissimo succo che ottieni spremendo un libro e facendolo tuo. Un percorso non sempre piacevole, perché non tutti i libri sanno darti le stesse emozioni.
Quelli di scuola… beh… a volte non fanno testo perché possono essere noiosi e complicati, ma alcuni romanzi o saggi, catturavano la mia attenzione in pochissimi istanti. E così, quando avevo tempo, mi nascondevo in biblioteca come un moderno Indiana Jones alla ricerca del Santo Graal, fino a che non scoprivo un libro che mi accompagnava nella fuga.
Oppure non mi mancava l’occasione di entrare in una libreria a spendere un po’ di soldi in titoli improbabili, manuali, romanzi, narrativa ma anche libri comici e biografie. Non esisteva un limite a quello che potevo comprare, se non il costo e lo spazio fisico a casa.
Quello che non sapevo, e lo avrei scoperto in seguito, è che l’immaginazione passiva non bastava più: volevo creare il mio mondo, e con questa esigenza è arrivato il secondo vizio.
Nell’estate del 2008, ho preso il mio Macintosh, mi sono seduto nel tavolo della veranda e mentre ascoltavo i bambini che giocavano in piscina, ho cominciato a dare forma alle parole, a condire insalate di lettere che davano vita ad un mondo tutto mio.
E’ nato allora il mio primo romanzo Figli della Miniera, che ha focalizzato per diverso tempo i miei pensieri anche perché dopo l’inizio ho avuto un blocco. Nella prima versione il protagonista, il piccolo Hernann, sarebbe morto e siccome oramai volevo bene a quel bambino come ad un figlio acquisito, non potevo tollerare che questo accadesse.
Fu mia moglie Marilisa a darmi la soluzione (santa donna), a farmi capire che io potevo anche non farlo morire; riuscii a concludere il romanzo che ora è a disposizione di chi vuole entrare nell’ambiente di una miniera boliviana degli inizi del 1700.
Durante questo blocco durato diversi anni, non persi mai la voglia di scrivere, di immaginare, di immergermi in un mondo fatto di emozioni tutte mie. Emozioni che non ero avaro di condividere con gli altri, che invitavo con piacere a camminare nel mio mondo.
Ho capito che per me, la scrittura e la lettura, sono due potenti droghe che non mi faranno mai assuefare e di cui avrò sempre bisogno. Non riuscirò mai ad uscire dal circolo vizioso dove sono entrato, che mi obbliga a trovare qualche cosa da leggere o da scrivere, come se non avessi aria nei polmoni.
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